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Di Antonio Papa e Guido Panico, Storia sociale del calcio in Italia, Il Mulino, Bologna 1993.


Il tifo calcistico in Italia, fenomeno sociale e culturale che ha assunto dimensioni antropologiche tali da non poter più essere compreso entro le originarie dimensioni del fatto sportivo, nasce negli anni Venti con il diffondersi su tutto il territorio nazionale della pratica agonistica del calcio. L'antica storia municipale del paese si presta bene al sorgere di accaniti campanilismi sportivi, che contrappongono città a città, quando non addirittura diverse fazioni della stessa metropoli raggruppate sotto bandiere diverse, come succede a Torino, Milano e Roma. Curiose sono anche l'etimologia della parola "tifo" e le sue prime attestazioni nella stampa sportiva dell'epoca.

Il calcio degli anni '20 tenne in Italia a battesimo il "tifo". Il fatto in sé non aveva nulla di nuovo. Il parteggiare per il proprio beniamino in gara o per propria squadra era radicato nella natura stessa degli sport agonistici. Ma durante gli anni '20 questo sentimento di partecipazione raggiunse in Italia un'intensità e un'estensione senza precedenti, assunse un proprio e inconfondibile nome; da gergo si fece linguaggio e divenne realtà culturale. Le prime avvisaglie del "tifo" si erano avute negli anni del primo dopoguerra, considerati dagli storici dello sport come un periodo particolarmente turbolento del pubblico italiano. "Masse entusiaste, anche se digiune di competenza e di fair play", andavano riempiendo gli stadi, che erano inadeguati alla impennata di popolarità del gioco. Per lunghi anni non erano stati costruiti nuovi impianti sportivi, così che i vecchi stadi cominciarono a essere sovraffollati e a registrare incassi imprevisti. A Roma, in occasione della finalissima del campionato 1922-1923 tra la Lazio e il Genoa, erano presenti 10.000 spettatori per un incasso di 88.000 lire. Questa cifra venne ben presto superata da tutti gli incontri di cartello e soprattutto dalle partite internazionali.

Il primo notevole incremento del pubblico si registrò in occasione della partita del 15 gennaio 1922 tra l'Italia e l'Austria, che vide 20.000 spettatori assiepati sugli spalti del Velodromo Sempione di Milano, per un incasso di 207.000 lire. Apparve allora in Italia la figura del bagarino. La punta più alta di affluenza di pubblico degli anni '20 si ebbe il 29 maggio 1927, in occasione dell'inaugurazione del Littoriale di Bologna, che vide schierarsi la squadra azzurra contro quella spagnola davanti a 55.000 spettatori.

Intanto gli incontri di calcio cominciavano a coinvolgere le intere città che li ospitavano. In occasione dei grandi matches, non solo era trasformato l'ambiente circostante lo stadio, ma le strade, gli alberghi, i locali pubblici, i ristoranti mostravano un'animazione inconsueta. "Quando arrivammo a Bologna - ricordava Fulvio Bernardini, riferendosi alla partita inaugurale del Littoriale - nel giorno della vigilia, la città era in pieno fermento. Sembrava la sede di una grande fiera internazionale; rimanemmo attoniti al pensiero di come e dove avrebbe dormito tutta quella gente. Macchine con tutte le targhe d'Italia davano alla gaia città petroniana un aspetto ancora più lieto. I treni, da qualunque direzione provenissero, scaricavano gruppi e gruppi di vocianti tifosi. Per il mattino dopo era atteso il "grosso"; quelli cioè in grado di partire, arrivare e rientrare in sede nel giro di una giornata. Alberghi, ristoranti, locali piccoli e grandi non sapevano più come fare per contenere una tale marea di persone".

Tra le ragioni dell'aumento del pubblico vi fu anche la diffusione territoriale del gioco. Negli anni '20 il calcio divenne presente in 83 dei 94 capoluoghi di provincia. Anche nei centri più piccoli si costruivano nuovi impianti e si moltiplicavano i club, mentre veniva superato il solco che a lungo aveva diviso l'Italia sportiva dall'Italia rurale.

Tutto ciò andava di pari passo con la nascita del campanilismo sportivo, che innalzò il calcio a espressione delle rivalità locali. Questa identificazione di un gioco con l'orgoglio municipale non si limitava ai centri minori. Come si avrà modo di vedere meglio in seguito, gli anni '20 videro un rapido processo di unificazione delle numerose squadre di una stessa città che erano sorte nei primi tempi del calcio, e ciò favorì la concentrazione delle tifoserie. Là dove il processo di fusione tra gli antichi club cittadini era stato completo, fino alla riduzione a un'unica società sportiva, si realizzò la piena identificazione tra squadra e città: come a Napoli e a Firenze. Dove invece persistette il dualismo tra i maggiori club - a Milano, a Torino, a Roma - il tifo si divise in due grandi fazioni. Allora era difficile che un tifoso parteggiasse per una squadra che non fosse della propria città. La formazione di tifoserie nazionali - non legate a sentimenti campanilistici, ma di ammirazione per le squadre leader dei campionati - ebbe inizio con il fascino suscitato dalla Juventus dei cinque scudetti consecutivi, conquistati tra il 1930 e il 1935.

Intanto era cresciuta la passione dei supporters. Secondo un rapporto del questore di Napoli, del 9 marzo 1931, una partita tra la squadra partenopea e la Roma era "attesa da quasi tutta la cittadinanza napoletana con una passione che trascendeva gli abituali limiti di quella sportiva, per attingere ad una vera e propria affermazione e rivendicazione di razza".

Il "tifo" fu il neologismo più tipico del linguaggio sportivo italiano. È opinione diffusa che sia nato dalla penna dei giornalisti sul finire degli anni '20; se ne attribuiscono precise paternità. Se ne è anche voluta individuare una origine colta, derivata dal greco typhos: fumo, vapore. Ma è più probabile che la parola sia nata dal gergo degli spalti. Cominciò a circolare nel linguaggio parlato già prima della guerra, quando fu operata la deformazione del termine medico "tifico" in quello sportivo di "tifoso", ma il binomio "tifo-tifoso" tardò a comparire nei dizionari. Il Dizionario Moderno di Alfredo Panzini lo registrò per la prima volta nella edizione del 1935. Nel 1939 l'Enciclopedia Italiana accoglieva il lemma "tifo" come traslato sportivo.

Le prime tracce della nuova parola sui giornali risalgono ai primi anni del dopoguerra. In una cronaca dell'incontro tra il Naples e il Savoia di Torre Annunziata, giocato nel dicembre 1920 si legge: "Per la calma e il buon volere di pochi, non si sono lamentati incidenti di una certa importanza, ma i continui battibecchi del pubblico hanno valso a mettere in luce il soverchio campanilismo di qualche supporter torrese e l'esagerato "tifo" di qualche socio bleu-celeste". Come si vede, la parola appariva ancora tra virgolette.

Il tifo era allora una delle malattie più tragicamente familiari agli italiani, per la sua natura di male endemico, caratterizzato da fasi alterne e da momentanee alterazioni mentali. La traslazione sportiva della terminologia medica fu certamente dovuta a questa sua sintomatologia. Non a caso si sottolineava il carattere ciclico del tifo sportivo, di malattia domenicale o stagionale simile all'alzarsi periodico delle febbri tifoidi. Si assimilava il tifo sportivo a una sorta di epidemia mentale, il cui contagio produceva effetti di offuscamento, tipici degli eccessi della malattia.

Originariamente la nuova parola ebbe più il significato di sofferenza che quello di fazione. "Non è fortunatamente la terribile malattia infettiva di cui vogliamo parlare - scriveva Giovanni Dovara su "Il Calcio" di Genova nel 1923 - ma, come ognun comprende, la malattia sportiva, onde, più o meno sono infetti in questa stagione gli appassionati del Giuoco del Calcio. Fenomeno di passione acuta a tal punto da rivestire e da assumere, in certi casi ed in certe persone, i fenomeni più strani, più patologici. Ognuno di noi ha intorno a sé, quando noi stessi non ne siamo già in preda, una schiera di amici, di conoscenti, trasformati, irriconoscibili. Vi è il pensieroso, il quale si racchiude per tutta la settimana precedente la gara in un mutismo sofferente, e cogitabondo, almanacca le previsioni sulla squadra del cuore; vi è, per contro, il loquace, sempre disposto ad assalire per via l'amico e a snocciolargli, per l'ennesima volta, considerazioni e deduzioni ed argomenti sul valore reciproco delle squadre contendenti o su ciò che dice la carta".

Il nesso tra tifo e fazione sportiva, tra tifo e violenza non fu immediato, ma la pagina sportiva non tardò ad attribuirgli la radice dei maggiori episodi di intolleranza del tempo: la rissa tra giocatori e pubblico a Lucca durante la partita contro il Parma nella stagione del 1923-1924 e la minacciosa presenza di tifosi bolognesi sul terreno dell'Arena di Milano in occasione del terzo spareggio tra Genoa e Bologna per il titolo del campionato 1924-1925. L'episodio più grave del tempo fu la sparatoria alla stazione di Porta Nuova a Torino, dopo il quarto incontro di spareggio per il titolo nazionale tra il Genoa e il Bologna, giocato nel giugno 1925 nella città piemontese. Ma era tra i piccoli centri e tra le piccole distanze che le tifoserie avevano modo di confrontare le rivalità locali. Le tensioni del campanile divennero un tratto consueto del paesaggio sportivo italiano, ma la condotta minacciosa del pubblico restava di solito al di qua del limite della grave degenerazione ed è rimasta affidata più alla memoria delle carte di polizia che alla cronaca sportiva.

La violenza del tempo era di natura spontanea, l'aggressività del tifo non aveva allora le strutture, le motivazioni, la crudeltà, la predeterminazione che ebbe in seguito. La passione calcistica non aveva ciò che si dice un'organizzazione. Le presenze collettive sugli spalti erano legate a comunanze occasionali, le stesse che animavano i viaggi al seguito delle trasferte della squadra del cuore, promossi dalle società o dai giornali locali. Sul finire degli anni '20 divennero numerose le carovane dei tifosi. Oltre ai treni ordinari e speciali, divenne frequente l'uso degli automezzi pubblici. Alla partita tra la Lazio e il Napoli giocata a Roma il 16 giugno 1929 parteciparono circa duemila spettatori partenopei.

Il "tifo" non fu un neologismo esclusivo del calcio, ma anche della boxe, che ne condivise la paternità, e del ciclismo. Nel ciclismo dominò il fascino degli eroi degli sport individuali e delle coppie dei campioni della strada che dividevano, in mitica successione, l'entusiasmo degli appassionati.

Non mancò una letteratura sul tifo. Massimo Bontempelli, in Tifo e tifi diversi, ne propose nel 1934 una interpretazione antropologica, distinguendo il tifo "tirrenio", romano e napoletano, di buon livello tecnico, da quello "longobardo", degli spalti milanesi: più impressionistico e umorale. A essi lo scrittore lombardo aggiungeva il tifo "allobrogo" di Torino, di superiori capacità critiche, più distaccato ed esigente. Alla passione degli spalti sportivi Bontempelli attribuiva un'autenticità che non si trovava altrove: "Oggi, se voglio esaminare l'autentico pubblico dello spettacolo, più che a teatro debbo cercarlo nelle folle domenicali che assistono al campionato nazionale del gioco del calcio: le folle dei tifosi" e definiva il tifo come un "atto collettivo di abbandono e di generosità".

Si accese il problema della valenza etica e politica del tifo. Di solito il fenomeno era visto con benevolenza; anche se non mancarono le voci preoccupate dei suoi effetti negativi, che denunziavano le antiche e moderne cornici di pubblico degli stadi come uno strumento per abbassare l'attenzione critica dei popoli. Più autorevoli furono coloro che ne valorizzarono gli aspetti culturali. Francesco Flora coglieva il tratto classico dello spettacolo sportivo: "Guardato innocentemente lo spettacolo dello sport è una rappresentazione ditirambica dalla quale, come dal ditirambo, s'ebbe la nascita della tragedia; così sembra si debba sviluppare il futuro dramma sportivo". Ancora Massimo Bontempelli elevava gli scenari delle folle sportive a cornice ideale dello spettacolo del futuro e guardava allo stadio come modello architettonico per il nuovo teatro, un teatro di grandi dimensioni, capace di accogliere, come nelle rappresentazioni del mondo classico, decine di migliaia di spettatori.

Dal serio al faceto: Achille Campanile esercitava la sua originale ironia sul tifo e sul calcio in Giovinotti non esageriamo, apparso nel 1929 e nella commedia Campionato di Calcio del 1935, in cui figurava una coppia matrimoniale di tifosi di squadre avversarie: umori, linguaggio, logica, tutto li divideva, tranne la comune, radicata avversione per gli arbitri.

Il tifo ebbe una evoluzione nel corso del suo primo decennio di vita e costituì uno dei nuovi capitoli della storia del "fattore campo". Esso cominciò a riversarsi anche nelle trasferte. Divennero sempre più frequenti le schiere dei tifosi al seguito della propria squadra, incoraggiate dalla propaganda delle società sportive, che avevano iniziato la pubblicazione di propri periodici. "Hurrah!", il giornale patriottico-sportivo della Juventus era apparso, come si è visto, nel 1915. Nel 1919 fu fondato il "Football Club Torino". Nel 1921 nacquero il "B.F.C.", il periodico del Bologna, e il "Genoa Club". Molte altre società minori pubblicarono i loro periodici, anche se si trattava di solito di giornali di breve vita.

Che il tifo sia un fenomeno intersociale è opinione largamente diffusa tra la gente del calcio, anche se non si può ignorare un'intera linea di pensiero che ne accomuna la natura al falso interclassismo dello sport. È vero comunque che negli anni '20 si potevano individuare alcune preferenze di ceto o di categoria per questa o quella squadra. Gli spalti dello stadio erano ancora un discreto indicatore sociale. A Milano si voleva che i tifosi dell'Inter appartenessero ai ceti medio-alti, alle categorie degli impiegati, degli studenti, e che gli operai, i brumisti, i ferrovieri costituissero il sostegno del Milan. In genere il tifo degli anni '20, per il suo stile, appariva come manifestazione di un pubblico essenzialmente borghese. Erano rare le manifestazioni di folklore sportivo, tipiche del pubblico popolare dei decenni successivi. Comparvero allora i primi charivari del calcio, derivati dalla tradizione inglese, i primi funerali simbolici della squadra avversaria, le prime sfide irridenti della vigilia delle partite.