Agostino DI BARTOLOMEI
"Ago"

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(Archivio Magliarossonera.it)



Scheda statistiche giocatore
  Agostino DI BARTOLOMEI

Nato il 08.04.1955 a Roma, † il 30.05.1994 a San Marco di Castellabate (SA)

Centrocampista (C), m 1.80, kg 71

Stagioni al Milan: 3, dal 1984-85 al 1986-87

Soprannomi: “Ago”, “Caligola”, “Ninna Nanna”

Proveniente dalla Roma (squadra nella quale è cresciuto, prelevato dall’OMI di Roma)

Esordio nel Milan in gare ufficiali e in Coppa Italia il 22.08.1984: Parma vs Milan 1-2

Ultima partita giocata con il Milan il 23.05.1987: Milan vs Sampdoria 1-0 (Spareggio Uefa)

Totale presenze in gare ufficiali: 122

Reti segnate: 14

Palmares rossonero: 1 Finale a/r di Coppa Italia contro la Sampdoria (1985), 1 Mundialito per Clubs (1987)

Esordio assoluto in Serie A il 22.04.1973: Internazionale vs Roma 0-0

Palmares personale: 1 Scudetto (1982-83, Roma), 1 Finale di Coppa dei Campioni (1984, Roma), 3 Coppe Italia (1980, 1981, 1984, Roma), 1 Promozione in Serie B (Salernitana)

Esordio in Nazionale B il 16.04.1975: Jugoslavia vs Italia 0-0

Totale presenze in Nazionale B: 5

Reti segnate in Nazionale B: 0






(da "Forza Milan!")



(da "Intrepido")

Ha giocato anche con la Roma (A), il L.R. Vicenza (B), il Cesena (*) e la Salernitana (C1).

"Era arrivato al Milan per seguire Nils Liedholm, l’allenatore che seppe valorizzarlo alla Roma, squadra in cui era cresciuto, vincendo anche uno scudetto e arrivando a disputare una finale di Coppa Campioni e dove non ebbe più spazio grazie anche a qualche incomprensione di troppo, non certo di natura tattica. Carattere schivo ed introverso, nei suoi quattro anni in rossonero, Di Bartolomei, pur non vincendo nulla, seppe farsi apprezzare per aver dato al centrocampo l’esperienza di cui mancava. Infatti, pur non essendo molto veloce, Agostino sapeva disegnare, con i suoi lunghi lanci, delle apprezzabili geometrie.
Era dotato di un proverbiale, formidabile tiro su punizione, tanto che i tifosi delle squadre in cui militò, nel momento in cui si apprestava a calciare, ritmavano il motivetto “Agostino gol” per incitarlo, e se il pallone non finiva in fondo al sacco, certamente rappresentava un pericolo per la porta avversaria. All’avvento di Silvio Berlusconi, venne dirottato a Cesena, dove iniziò la sua parabola discendente di calciatore. A fine carriera giocò con la Salernitana con cui ottenne una storica promozione in Serie B, ultimo alloro della sua carriera. Attaccati gli scarpini al chiodo, si stabili definitivamente, per volere della moglie Marisa, a San Marco di Castellabate, nel salernitano, dove aprì una scuola calcio ed un’agenzia di assicurazioni, chiusa poco tempo dopo, sembra con un passivo di duecento milioni. Tentò inutilmente anche di rientrare nel giro del grande calcio, ma a quanto pare gli vennero sbarrate tutte le porte.
Nel giugno del 1994, a soli 39 anni, sulla terrazza della sua villa, pose fine alla sua esistenza sparandosi un colpo di pistola al cuore, non prima di aver lasciato un biglietto di scuse indirizzato a Marisa ed i suoi due figli, portando con sé più di un interrogativo e lasciando attoniti quanti (e non erano pochi) avevano imparato a stimarlo, purtroppo solo sul rettangolo verde." (Nota di Colombo Labate)



Agostino Di Bartolomei (Roma, 8 aprile 1955 - San Marco di Castellabate (SA) 30 Maggio 1994), Altezza: 180 cm. - Peso: 71 Kg. centrocampista.
Crebbe come campione vicino Tor Marancia, nel quartiere in cui era nato, nell'Oratorio S. Filippo Neri. Passò alla Roma giovanissimo, e si fece subito notare per la sua eccellente tecnica di gioco, entrando presto nella prima squadra della Roma.
Nel 1972 (stagione 72/73), giocò la sua prima partita in casacca giallorossa.
Nel 1975 andò in prestito al Vicenza, dove fece esperienza pronto a rientrare alla Roma per ricoprire un ruolo primario. Dalla stagione 76/77 Agostino Di Bartolomei diventò titolare inamovibile della Roma.
Con il ritorno di Nils Liedholm alla guida dei giallorossi, Di Bartolomei divenne il leader della squadra. Negli anni '80 raggiunse l'ambito ruolo di capitano della Roma. La stagione 1983/84, caratterizzata dalla sconfitta contro il Liverpool in finale di Coppa dei Campioni, fu l'ultima in giallorosso per Di Bartolomei. Successivamente militò nelle file di Milan, Cesena e Salernitana.
Centrocampista forte tecnicamente e fisicamente roccioso, faceva della visione di gioco abbinata alla potenza la sua arma vincente. In possesso di un tiro potentissimo, usava battere punizioni e rigori con una percentuale altissima di realizzazione. Non essendo molto veloce, sostituiva questa sua carenza con il senso della posizione in campo. Regista di assoluta classe, ha guidato in particolare Roma e Milan da assoluto leader di centrocampo.
In 11 stagioni con la Roma, conquistò tre Coppa Italia e uno Scudetto, nella stagione 1982/83, siglando 7 reti.
Agostino Di Bartolomei giocò con la Roma 237 gare, segnando 50 gol.



(dal sito www.asromaultras.it)



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Intervista a Di Bartolomei, dal mensile "Giallorossi", febbraio 1975



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Intervista a Di Bartolomei, dal mensile "Giallorossi", maggio 1977
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Intervista a Di Bartolomei, dal mensile "Giallorossi", ottobre 1978



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Intervista a Di Bartolomei, dal mensile "Giallorossi", marzo 1979
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Agostino Di Bartolomei con la maglia della Roma, 1978-79



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Intervista a Di Bartolomei, da "La Roma", giugno 1983



Dal sito www.repubblica.it
23 luglio 1984

BORNEO, SONO GOL AGLI ANTIPODI
MILANO - Il Milan ufficializzerà oggi l'ingaggio di Agostino Di Bartolomei. Il capitano della Roma aveva raggiunto già da un paio di settimane l'accordo con la società rossonera. La Roma infatti aveva deciso di non rinnovare il contratto al giocatore al termine del campionato, non potendogli assicurare un posto di titolare fisso. Il passaggio di Liedholm al Milan ha facilitato ovviamente la trattativa: prenderà circa 250 milioni l'anno. Di Bartolomei ha ventinove anni: con la Roma ha giocato undici campionati (nel '75-'76 andò un anno al Vicenza).






Luglio 1984, Agostino Di Bartolomei nuovo acquisto del Milan
(da "L'Unità")



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Intervista a Di Bartolomei, dal mensile "Giallorossi", 1983-84
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Intervista a Di Bartolomei, dal mensile "Giallorossi", novembre 1984 (già trasferito al Milan)




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Cartolina di Agostino Di Bartolomei, stagione 1985-86



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Primo Carlini e Agostino Di Bartolomei, 1986-87



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Un articolo sul "Corriere dello Sport" da parte
del Commando Ultrà Curva Sud della Roma
dopo la morte di Agostino Di Bartolomei, maggio 1994


(da "Forza Milan!")





Un murales che ricorda l’ex capitano giallorosso a Casal dei Pazzi, a Roma





(da "Almanacco Illustrato del Milan")


(Archivio Magliarossonera.it)





(Archivio Magliarossonera.it)


(Archivio Magliarossonera.it)



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Agostino Di Bartolomei negli spogliatoi, stagione 1986-87
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Agostino Di Bartolomei gioca al biliardo con la moglie Marisa



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30 maggio 1994, si è ucciso Agostino Di Bartolomei
(da "L'Unità")



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30 maggio 1994, si è ucciso Agostino Di Bartolomei
(da "L'Unità")






Copertina del "Corriere dello Sport" del 31 maggio 1994


Una strada della Capitale dedicata ad Agostino Di Bartolomei



Dal sito www.ilveromilanista.it
di Saverio Fiore

UN CAMPIONE TROPPO SOLO
Risuona da lontano come una eco quasi impercettibile la canzone a lui dedicata da Francesco De Gregori, “Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore….” e lui non ebbe paura mai di sbagliarli, ma ebbe piuttosto altre angosce ed inquietudini che alcuni anni più tardi guidarono la mano tremante verso un gesto disperato. Diciamolo subito, non fa parte degli evergreen rossoneri, quelli che hanno scritto pagine epiche del club o che hanno calcato i campi di gioco per molto tempo con la mitica casacca del diavolo, Agostino Di Bartolomei è stato per i nostri colori poco più che una meteora, ma ha il merito di aver scelto il diavolo in un momento in cui non ce la passavamo benissimo, quando fu messo alle corde dalla dirigenza della Roma che gli manifestò la volontà di puntare su altri progetti, e lui con incredibile dolore dovette rassegnarsi al destino di finire la carriera lontano da Roma e dalla Roma.
La sua carriera cominciò infatti nelle giovanili giallorosse agli inizi degli anni ’70, e per lui, cresciuto nel quartiere della Garbatella, fu sempre un onore portare in giro per tutta Italia quella maglia tanto cara come simbolo di appartenenza alla sua città. Personalmente lo ricordo al Milan come fosse un precursore dei giocatori alla Ronald Koeman, potente fisicamente, dotato di un tiro micidiale ed una precisione matematica specialmente nei calci piazzati, una lentezza che veniva rimpiazzata da un senso della posizione davvero notevole ed una facilità di calciare che gli permetteva di effettuare lanci di 50-60 metri con assoluta precisione, un centrocampista puro che per ragioni di opportunità tattiche fu trasformato in libero dalla sapiente visione del barone Liedholm, all’inizio furono problemi ma poi con l’aiuto di Pietro Vierchowod riuscì a superare l’empasse a divenire un punto di riferimento inamovibile. Al Milan arrivò nel 1984 all’indomani della cocente sconfitta nella finale di Coppa dei Campioni subita ai calci di rigore ad opera del Liverpool di Ian Rush lasciando campioni del calibro di Falcao, Cerezo, Conti e Pruzzo, e trovando una squadra da rifondare dopo l’ottavo posto colto nella stagione 1983-84.
Ma rifondare non significa, come crede qualcuno, guardare al nuovo tout-court, ed ecco riemergere la figura integra e la mano amica di Nils Liedholm. Il Barone reduce dalla esperienza in giallorosso porta con sé l’esperienza e la sicurezza del nostro Agostino, e quello è un Milan in cui spiccano nomi come Virdis, come baffo Terranno, “rasoio” Wilkins e “Attila” Hateley. E’ un Milan mediocre che da poche soddisfazioni ai propri sostenitori, sono anni difficili per tutti noi ma presto gli incubi si trasformeranno in sogni e presto, molto presto, saranno realtà con l’acquisto della società da parte di Silvio Berlusconi che riporterà il diavolo agli antichi splendori.
In tutto Di Bartolomei disputerà nelle tre stagioni in rossonero 88 partite condite da 9 gol, segnando una rete addirittura alla sua amata Roma con tanto di esultanza. Con l’arrivo di Arrigo Sacchi si trasferirà al Cesena dove comincerà il lento declino, in poco tempo cade nel dimenticatoio ed una volta appese le scarpette al chiodo i vecchi “amici” si dimenticano di lui. Comincia a sperare in qualche chiamata della Roma magari come dirigente, ma quel telefono non squillerà mai, ed il trenta maggio 1994 si ammazzerà con un colpo di pistola al cuore, come il più classico degli eroi romantici, nella sua villa a San Marco di Castellabate, in provincia di Salerno. Chissà che il ricordo di quella sconfitta tanto cocente della finale con i Reds, avvenuta esattamente dieci anni prima, mischiata ai dissapori che la vita gli ha voluto riservare, non abbia inciso su quella decisione scellerata e maledetta che ci ha tolto un campionissimo di lealtà e rettitudine, un uomo schivo e riservato, troppo orgoglioso per mostrarsi debole, qualità tanto rare da ritrovare nei campioni di oggi, troppo impegnati ad inseguire veline e letterine per poter cogliere come esempio una persona di tale spessore.
Un abbraccio carico di nostalgia caro Ago ovunque tu stia. Saverio








Dal sito www.storiedicalcio.altervista.org

IL LATO OSCURO DEL PALLONE
Imperturbabile, serio, razionale. Sembrava per carattere lontanissimo da un gesto così drammatico. Invece una serie di fattori negativi l'ha portato alla disperazione: primo fra tutti, forse, l'impossibilità di rientrare da protagonista nel mondo in cui da giocatore aveva vissuto per tanto tempo.

Agostino Di Bartolomei: Una storia che pesa sul cuore
Il capitano. Giallo come il sole, rosso come il cuore. Era il 30 maggio 1984 e da una strabocchevole e arroventata Curva Sud uno strano striscione, lirico nella sua semplicità, occhieggiava verso l'erba tagliata di fresco di uno stadio Olimpico mai così colmo e sovraeccitato.
Quella sera Roma si era fermata. Per una volta si era lasciata scivolare giù dalle spalle i suoi abituali panni di metropoli cinica e caotica per lasciarsi avvolgere comple-tamente da un palpitante drappo giallorosso, tra le cui pieghe sussultava e fremeva tutta la città: dai quartieri storici romani - Testaccio, Trastevere, Parioli - fino alle nuove alienanti periferie dei mostri di cemento e dei quartieri-dormitorio.
Racchiusa e compresa in quella finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool c'era tutta Roma. C'era chi aveva fatto carte false per procurarsi un biglietto di curva ed ora, agitato da un anormale senso di euforia, aspettava in piedi l'inizio dell'incontro; c'erano migliaia di persone che si erano riversate nelle piazze per vivere la partita attraverso la coralità di un megaschermo, tra bandiere, lazzi e qualche birra; c'era chi si era organizzato con gli amici e vedeva la finale in tv, seduto in poltrona ma con un batticuore da spalti; infine c'era anche chi - come i "cugini" laziali - mai come quel giorno avrebbe voluto nascondersi sottoterra, ma che la partita la guardava lo stesso, se non altro per "gufare".

All'Olimpico l'atmosfera era ormai carica di elettricità. I tamburi battevano, s'intonavano i primi cori, applausi propiziatori scrosciavano con un fragore assordante. I giocatori stavano per scendere in campo, erano lì nel sottopassaggio, come gladiatori attesi al combattimento decisivo. Tutto lo stadio, all'unisono, li chiamava con i nomi di battaglia. «Ago, Ago, Agostino gol»: i tifosi cantavano e si riempivano già gli occhi con una delle sue punizioni, uno di quei missili terra-terra che correvano a filo d'erba per andare a insaccarsi nella rete avversaria.

Il coro sfumava in un boato: la Roma, la grande Roma dello scudetto, stava entrando in campo. Bruno "folletto" Conti saltellava su una gamba e sull'altra più freneticamente del solito, "er portierone" Tancredi sfogava tutto il suo nervosismo masticando furiosamente un chewing-gum, maestro Liedholm ricercava la perduta compostezza nordica lisciandosi di continuo i capelli.
Ma ecco che finalmente anche il capitano si portava al centro del campo. Agostino Di Bartolomei - Diba o Ago per la curva Sud - sembrava essere l'unico a rimanere imperturbabile sotto il peso di quel frastuono che, soffocato da una spessa coltre di fumogeni, arrivava deformato alle orecchie. Fascia di capitano al braccio e capelli nerissimi scolpiti sulla testa, Diba - romano fin dalla culla, romanista dai primi vagiti - non mostrava alcun segno di emozione. Non una smorfia, non un sorriso, non un cenno.
Niente. Eppure intorno a lui lo stadio sembrava un vulcano sul punto di esplodere. Ma forse, proprio dietro l'impenetrabilità di quegli occhi scuri e di quello sguardo accigliato, era nascosto tutto l'amore che Di Bartolomei nutriva per la sua Roma. Forse, magari quasi furtivamente, anche lui aveva gettato uno sguardo a quello strano striscione sentendosi ribollire dentro: giallo come il sole, rosso come il cuore.

L'ex. Sono le otto di mattina del 30 maggio 1994 quando Di Bartolomei - non più Ago, non più Diba, non più il capitano dello scudetto e di tante altre battaglie, ma solamente, normalmente e banalmente Agostino Di Bartolomei, uomo qualunque andato a rinfoltire la desolata pletora degli ex a vita - si alza dal letto.
Agostino esce dalla camera in silenzio, come al solito, per non svegliare la moglie Marisa, ex hostess conosciuta nell'anno dello scudetto. Scende piano le scale della sua abitazione - una magnifica villa immersa nel verde di San Marco Castellabate, piccolo borgo del salernitano raggomitolato sulla riva del mare - quindi apre un cassetto e ne estrae una delle sue due pistole. E' una Smith & Wesson calibro 38. Di Bartolomei la carica, si sposta in veranda e là, nel silenzio, ancora in pigiama, preme il grilletto e spara. Un colpo dritto al cuore.
Giallo come il sole, rosso come il cuore. Sono passati dieci anni da quella sfortunata finale di Coppa dei Campioni. Dieci anni esatti. Ed è il destino forse, chiamiamolo pure un destino crudele e beffardo, quello che ha voluto che quello striscione partorito dall'ingenua fantasia di qualche tifoso, tornasse alla memoria. Destino, perché nello stesso giorno, con cadenza decennale, al popolo romanista due volte il cuore si è fermato e due volte il sole si è oscurato. Destino, perché quel giallo e quel rosso si sono sovrapposti, confusi ed annullati entrambe le volte, per poi riemergere con più forza di prima: mai come dopo quei due 30 maggio i tifosi hanno avuto bisogno di sole e di cuore.
Destino poi, soprattutto perché quel sole e quel cuore hanno corso lungo un filo dipanatosi attraverso dieci anni e con agli estremi gli spasimi di due diverse disperazioni, ma anche di due diverse generazioni.

Quelli che erano i campioni di ieri sono gli ex di oggi, quelli che sono i campioni di oggi saranno gli ex di domani, in una spietata continuità di ricambio fisiologico. E in mezzo a questo vortice senza un inizio né una fine, oltre agli anni che passano ci siamo noi, ci siete voi, ci sono tutti.
C'era anche Agostino, ma non ha resistito. E' rimasto vittima della sindrome da viale del tramonto, ha azzardato qualcuno. Non ha retto al grande vuoto che si era creato nella sua vita dopo l'abbandono del calcio, hanno sostenuto molti. Certo è che finché sei là, sotto la ribalta, per quanto se ne dica l'ambiente dello sport è un ambiente protettivo.
Per cinico e impietoso che possa sembrare, quello dello sport è un cantuccio che ti difende dall'aridità della vita e dei sentimenti. Finché dura.
«Sto fra due mondi, ma non mi sento a casa mia in nessuno di essi», diceva Tonio Kroeger riferendosi alla sua condizione di artista "fuorviato". Ed in effetti anche tutti gli ex campioni possono essere definiti artisti fuorviati, sospesi tra il limbo dei ricordi e la banalità del presente, spesso senza riuscire a trovare una precisa dimensione.
Il dramma di Di Bartolomei e di tanti ex forse era tutto qui, in questo ritrovarsi ad essere artisti della vita. Non tanto per la celebrità, né per il "genio", quanto per la diversità e l'unicità con cui si dipanava la matassa della loro esistenza.

Nel testo di una sua canzone Bruce Springsteen dice che per arrivare un giorno a camminare nel sole, bisogna prima adattarsi a percorrere le vie secondarie, quelle più in ombra. Ecco, gli ex si trovano ad affrontare la problematicità di un percorso esattamente inverso a questo: ritrovatisi personaggi ad appena vent'anni, spesso arrivati a quaranta sono costretti a reinventarsi "uomini comuni". E proprio in questa anomalia risiede la caratura artistica della loro vita.

Dieci anni prima Ago era là, sotto i riflettori dell'Olimpico, all'apice della carriera calcistica. Dieci anni dopo Agostino viveva diviso tra piccole partecipazioni ad imprese, proprietà immobiliari e vari progetti. Ha scelto di andarsene, e lo ha fatto fedele alla sua immagine di anti-eroe, senza grandi proclami, senza che intervenissero eventi sconvolgenti. Per lui ha agito la solitudine e il dolore, per noi, dopo, le recriminazioni e il rimpianto.
Ed è inutile stare a scavare e a sondare alla ricerca di una parola, di un nome, di un indizio. Per capire quel gesto bastano le parole di uno come lui, anch'esso anti-eroe, anch'esso a suo modo artista: Amleto. "Morire per dormire. Nient'altro. E con quel sonno poter calmare i dolorosi battiti del cuore e le mille offese naturali di cui è erede la carne. Morire per dormire. Dormire, forse sognare".

 



Dal sito www.tifo-e-amicizia.it

L'ULTIMA PARTITA
Il coraggio, l'altruismo e la fantasia: Agostino Di Bartolomei

di Giovanni Bianconi e Andrea Salerno, ed. Limina, €. 12.91

Trenta maggio 1984, allo stadio Olimpico la Roma guidata da Liedholm perde la finale di Coppa dei Campioni, sconfitta ai calci di rigore dal Liverpool, per quella che ancora oggi resta la più cocente delusione della storia giallorossa. Trenta maggio 1994, il capitano di quella grande Roma, Agostino Di Bartolomei, si uccide con un colpo di pistola al cuore nella sua villa a San Marco di Castellabate, in provincia di Salerno. "L'ultima partita", libro scritto a quattro mani da Giovanni Bianconi e Andrea Salerno - Limina 2000, euro 12,50 - racconta questi due tristi eventi, così diversi tra loro e così intimamente legati; per certi versi infatti è stata quella l'ultima vera partita di Agostino, costretto poi a lasciare Roma e la Roma, a terminare altrove la sua carriera (Milan, Cesena, Salernitana). Chissà che il ricordo di quella sconfitta arrivata nell'occasione più importante, sia riaffiorato nella mente di "Ago" quella mattina di primavera di quasi dieci anni fa, quando uno sparo, quasi fosse il triplice fischio di un arbitro, ha messo fine alla sua partita con la vita.

Una morte che ha colto tutti di sorpresa, lasciato tutti nello sgomento, mostrato la fragilità del campione davanti al "buco nero" che spesso si apre una volta appesi gli scarpini. Una scuola calcio fondata nel paesino di San Marco, con qualche problema economico, ma con la passione di lavorare con i giovani, nel cuore però sempre vivo il desiderio di tornare nel calcio che conta, come allenatore o dirigente, magari nella "sua" Roma; tanti contatti, progetti, promesse non mantenute, nessuno disposto ad offrirgli nulla, a lui così timido per chiedere qualcosa in modo diretto. Il giorno dei funerali la moglie Marisa si sfoga contro il mondo del calcio che ha chiuso la porta in faccia ad Agostino, dimenticandosi di quanto lui avesse fatto in campo da protagonista, «un mondo a cui lui ha dato tutto, che l'ha vigliaccamente tradito». Da quel giorno tutti quelli che lo conoscevano si sono interrogati almeno una volta sul loro rapporto con Agostino, hanno rivissuto mentalmente l'ultimo incontro o l'ultima conversazione telefonica, hanno provato invano a cercare un perché ad una tragedia che ha segnato la coscienza di molti. Le riflessioni e le testimonianze raccolte nel libro tracciano l'inedito ritratto di un uomo apparentemente schivo e certo poco avvezzo ai riflettori, ma legato in maniera indissolubile ai colori giallorossi.
E' la storia di "un campione troppo solo" (così titolava il commosso pezzo di Giorgio Tosatti sul "Corriere della Sera" all'indomani della morte), ma troppo orgoglioso per mostrarsi debole. E' la storia di un campione e della sua città, dai campetti dell'oratorio a Tormarancia al provino per entrare nelle giovanili della Roma sotto gli occhi del "mago" Herrera, dall'esordio in prima squadra all'incontro con il suo "maestro" Liedholm, dalla vittoria dello scudetto con la maglia giallorossa e la fascia di capitano al braccio alla sconfitta per eccellenza contro i "Reds". Pochi giorni fa all'ex capitano romanista è stato intitolato un viale proprio nel quartiere della capitale, un ricordo affettuoso per l'uomo, quasi un riconoscimento ad un calcio perso per sempre.

Recensione Limina editore:
L’ultima partita è la storia di un campione di calcio e della sua città. Dai campetti periferici di Tormarancia allo scudetto con la fascia di capitano della Roma. Di Bartolomei l’escluso, il solitario, suicida nel decimo anniversario della più grande sconfitta del calcio capitolino: la finale di Coppa dei Campioni persa in casa contro il Liverpool ai calci di rigore. È proprio attraverso la lettura di quella partita che i due autori del libro ripercorrono tutte le tappe di una vita spesa a tirar calci ad un pallone. Dietro il loro racconto e le testimonianze raccolte, un inedito ritratto di un uomo legato nel destino ai colori giallorossi e alla storia sportiva della Roma. Il simbolo di un calcio perso per sempre, fatto di vivai e primavere, di giocatori bandiera, di sudore, di umiltà, di grandi vittorie e di grandi sconfitte. Fatto di identificazione totale con la maglia, di riflettori che si spengono. Attraverso la vita e la morte di Di Bartolomei, il racconto di una stagione italiana e l’eroico passato recente di uno sport che sta cambiando troppo.

 





Di Bartolomei e Tancredi con la Coppa Italia
vinta con la Roma nella stagione 1980-81


Luca Di Bartolomei (a destra) e Roberto Losi alla festa
de "Il Romanista", Campo Testaccio, Roma, 9 settembre 2006








Un ritratto della famiglia Di Bartolomei


Copertina di "Forza Milan!", ottobre 1985



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Agostino Di Bartolomei con la famiglia



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Stagione 1984-85
(dal sito www.acmilan.com)
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28 ottobre 1984, Milan vs Internazionale 2-1:
Agostino Di Bartolomei esulta dopo il suo gol
(per gentile concessione di Renato Orsingher)



Dal sito milanblogclub.iobloggo.com
1° giugno 2012 - by Sertac

LA FIRMA DI AGO NEL DERBY DELL’OTTOBRE ‘84
Nel diciottesimo anniversario della tragica ed improvvisa scomparsa di Di Bartolomei, riviviamo la stracittadina che sancì l’inizio della fine del ciclo del “Piccolo Diavolo”
L’ingaggio da parte del Milan di Agostino Di Bartolomei, capitano e colonna portante della Roma campione d’Italia e vicecampione d’Europa, fu ufficializzato il 23 giugno del 1984. L’accordo era già stato raggiunto da un paio di settimane. Il centrocampista decise di seguire Liedholm che, a distanza di un lustro, tornava sulla panchina rossonera.
A ventinove anni e dopo undici campionati in giallorosso, Di Bartolomei approdava al Milan trovando l’allenatore che lo aveva valorizzato alla Roma. L’ex capitano romanista si fece apprezzare presto dai tifosi rossoneri. Con lui, il centrocampo registrò un tasso di qualità ben più elevato in termini tecnici e di esperienza. Geometrico, ordinato, mai un pallone buttato via a casaccio, lanci precisi di lunga gittata ed un tiro potente, soprattutto nei calci piazzati. Una caratteristica che i tifosi evidenziavano spesso, intonando un motivetto prima delle sue punizioni (“Agostino gol”).
Già dalle prime battute della stagione 84/85, Di Bartolomei dimostrò di essere a suo agio negli schemi voluti dal Barone svedese. I rossoneri uscivano da un ciclo molto difficile, con due retrocessioni in B sul groppone, altrettante promozioni ed un’annata senza infamia e senza lode (83/84).
Con gli innesti degli inglesi Hateley e Wilkins e l’arrivo di una punta dall’elevato fiuto del gol (Virdis), oltre all’acquisto di Di Bartolomei, il Milan puntava ad un campionato d’alto livello. L’obiettivo minimo era l’ingresso in Zona Uefa. Nelle prime due partite ufficiali (in Coppa Italia, contro Parma e Brescia), Di Bartolomei andò in gol trasformando due calci di rigore.
Ad ottobre, il diavolo rossonero spiccò il volo grazie a due vittorie casalinghe. Contro la Roma, fu proprio l’ex capitano giallorosso a sbloccare le marcature, in avvio di ripresa, aprendo la strada per la vittoria. Di gran classe il commento di Gianni Mura: “Di Bartolomei ha portato il suo gol a riprova dell'esistenza di Dio. Senza arrivare a tanto, è curioso notare che l'ex romanista, che segna poco e in genere su rigore e punizione, segni alla Roma su azione”. E Brera di rimando: “Torno entusiasta del Milan, che per la prima volta vedo a San Siro. Il centromediano metodista Di Bartolomei effettua lanci lunghi e appoggi che smentiscono di netto i miei guardoni vicini e lontani”.
Nel derby del 28 ottobre ’84, Di Bartolomei insaccò alle spalle di Zenga un assist di Virdis, pareggiando, poco dopo la mezzora di gioco, l’iniziale marcatura di Altobelli. A rendere “indimenticabile” la stracittadina numero 194 fu il terrificante colpo di testa di Mark Collo d’Acciaio Hateley. L’inglese umiliò in elevazione lo stopper nerazzurro Collovati, “l’ingrato transfuga” di due stagioni addietro.
Gianni Brera scrisse su Repubblica: “A questo Milan non posso che inchinarmi”. Brera aggiunse: “Il campo ha legittimato la vittoria del Milan. Sento qualche fratello bauscione maledire a Castagner, colpevole secondo lui di essersi lasciato stracciare da Liedholm. Sono diversivi concessi al proprio dispetto”. Il Gran Giuan assegnò a Di Bartolomei 7 in pagella, sottolineando: “A mio parere il Milan farà faville finchè potrà avvalersi di Wilkins e di altri almeno degni della sua diligenza, dico gli Evani, i Verza e, dietro loro, i Di Bartolomei”.
Nella stagione 84/85, Di Bartolomei disputò in campionato 29 partite su 30, segnando sei reti (meglio di lui fecero solo Virdis con 9 e Hateley, 7). Un’ottima annata dopo essere stato troppo frettolosamente sbolognato dalla Roma. Quel Milan chiuse il campionato al quinto posto, raggiungendo anche la finale di Coppa Italia dove dovette arrendersi alla Sampdoria di Bersellini. Era un diavolo un po’ meno piccolo, anzi, pronto a diventare il diavolaccio, quello che porta sulla maglia il simbolo del club più titolato al mondo.
Di Agostino, che decise di farla finita con la vita il 30 maggio 1994, ci piace ricordare la serietà del giocatore, il suo essere “uomo vero” in un ambiente dominato da squali e regolato, ieri come oggi, da cinghiali laureati in matematica pura.




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(dal "Giornale di Vicenza" dall'8 ottobre 2021, grazie a Luigi La Rocca)



Dal sito www.corriere.it
24 marzo 2023

IL FIGLIO DI AGOSTINO DI BARTOLOMEI: «SI È UCCISO E HO PROVATO TANTA RABBIA: ORA HO RICOMINCIATO A CHIAMARLO PAPÀ»
Parla Luca, il figlio del grande calciatore della Roma e del Milan che si suicidò nel decimo anniversario della sconfitta dei giallorossi con il Liverpool
«Il 18 agosto dell'anno scorso io, Luca Di Bartolomei figlio di Agostino Di Bartolomei, sono diventato più vecchio di mio padre. Ho raggiunto e superato il tempo che lui ha vissuto, e ho avuto la forza di andare sulla sua tomba a San Marco di Castellabate, in provincia di Salerno, di fronte al mare, cosa che non faccio praticamente mai. Ed è stato un altro colpo di pistola, che non mi aspettavo».
Come quello che il 30 maggio 1994 s'è sparato suo padre al petto, uccidendosi sul terrazzo della vostra casa di San Marco?
«Quello mi tolse il padre. Questo invece è riuscito a svegliarmi, a liberarmi da un senso di colpa che non doveva appartenermi ma mi ha accompagnato per quasi ventinove anni».
Perché un senso di colpa? Lei era solo un bambino di 11 anni quando suo padre si suicidò.
«Perché non sapevo come reagire a ciò che avvertivo come un rifiuto da parte di Agostino. Lui si è ucciso nonostante avesse me, oltre mia madre e mio fratello, e dunque pensai che dovessi avere anch'io una parte di responsabilità. Il suo gesto ha generato in me quel sentimento con il quale a un certo punto ho dovuto fare i conti, ma ha pure trasformato Agostino in un piccolo fenomeno collettivo per tante persone della sua generazione, in questo microcosmo che è Roma».
Il capitano della Roma campione d'Italia del 1983, romano del quartiere popolare di Tormarancia che guidò la squadra a vincere il suo secondo scudetto e subito dopo arrivò alla finale di Coppa dei campioni, persa ai rigori il 30 maggio 1984. Che cosa c'è di collettivo dietro un suicidio avvenuto esattamente dieci anni dopo quella sconfitta?
«Credo che Agostino sia la rappresentazione del potenziale fallimento che interroga tutti, e di fronte al quale rimaniamo senza parole o senza fiato. Prenderne atto attraverso una persona mitizzata nel luogo più incontaminato della nostra infanzia, il gioco, considerato una sorta di eroe del mondo in cui siamo stati e ci fa sentire ancora bambini, è una circostanza che atterrisce, ma suscita anche tanta pietà».
Perché lo chiama Agostino, anziché papà?
«Perché fino ad ora l'incapacità di capire come vivere questa vicenda ha provocato una rabbia che ha eretto una specie di muro tra me e lui. Quasi invalicabile. Invece da simili esperienze bisognerebbe imparare ad avere la forza di accettare le proprie fragilità e non provare sempre a superarle spingendosi oltre; riempire ogni cosa di significati va bene, ma va bene anche non avere l'ansia di riempirle ad ogni costo perché altrimenti manca qualcosa».
Essere figlio ma anche vittima di un suicida famoso, aiuta a superare il trauma o è un ostacolo in più?
«Per certi versi aiuta perché contribuisce a parlarne, a cercare di capire che cosa è successo senza che tu te ne rendessi conto; però a volte è un peso ulteriore, come se fossi avvolto da una tela continuamente tessuta anche quando tu senti il bisogno di strapparla. Io oggi avverto tutto l'amore per il figlio di Agostino e di essere riconosciuto come tale qui a Roma, però sento anche che dietro la continua ricerca di risposte da parte di tante persone che si interrogano sulla mia storia ci sono le loro domande, il loro rapporto con le loro fragilità, con un momento di solitudine o con il bisogno di amare una persona sconfitta».
E questo riguarda gli altri, non lei.
«Esattamente. Agostino era un calciatore che ha vinto uno scudetto e ha rappresentato tanto da vivo, ma per molta gente ha lasciato più impronte da morto. È stata una persona di successo che da un quartiere umile è arrivata sul tetto d'Europa e poi è crollata, uccidendosi in quella stessa data dieci anni dopo, facendo un tonfo talmente rumoroso da andare oltre la sua vicenda personale. Trasformandola in collettiva. Quasi generazionale. In fondo la sua generazione, se non è stata più fortunata della mia ha avuto certamente prospettive migliori e più ampie di quelle che si dischiudono oggi; è come se per quelli della sua età sbagliare fosse meno giustificabile rispetto a coloro che sono arrivati dopo. Forse anche per questo il suo gesto interroga molti. Agostino è stato mio padre, ma è anche il fratello di tanti di voi».
In passato lei ha detto di voler credere che lo sparo nel decennale di «una stupidissima partita di calcio» persa ai calci di rigore fosse solo una coincidenza, non voluta. Ora sembra aver cambiato idea.
«È così. Ho accettato l'idea che ci si possa sentire manchevoli anche di fronte all'amore di un figlio e di una famiglia, che evidentemente non bastano a colmare le lacune del proprio animo».
Quindi rievocare la sconfitta nella finale di Coppa dei campioni significava ammettere un fallimento personale?
«Direi di sì. Non ho certezze né prove, ma dovendomi basare su indizi penso che si debba accettare questo messaggio, farci pace e andare avanti. Smetterla di chiamarlo Agostino e farlo tornare papà. In fondo la mia rabbia verso di lui è derivata proprio dal suo considerarsi più Ago che papà; più il campione che aveva fallito l'appuntamento più importante della sua carriera del padre che poteva essere. Però sto capendo che le persone vanno amate come sono, non per come vorremmo che fossero. I figli si amano quando sbagliano e questo deve valere anche per i genitori. Ma per amare persone che sbagliano devi essere in pace con te stesso. Io mi sono sempre sforzato di perdonarlo per quello che mi ha tolto, decidendo di andarsene quando ero ancora un bambino; adesso sto provando ad amarlo».
Suo padre s'è ucciso con una pistola che teneva in casa, insieme a un altro revolver e una carabina. Una passione per le armi, dice qualcuno, mentre lei è dichiaratamente contro la detenzione personale di pistole e fucili.
«Non so se fosse una passione o un'esigenza di protezione dettata dalla paura. Lui al Poligono non lo ricordo, ma immagino ci andasse. Di sicuro le armi le ha acquistate dopo aver subito una rapina e nel contesto delinquenziale degli anni Settanta e Ottanta che è stato parte della storia di Roma. Il possesso di un'arma aiuta a allontanare le insicurezze e le fragilità, che invece sono come le cuciture degli aerei: li rendono più forti perché più elastici. Le armi sono una risposta rigida: sì o no, sparo o non sparo, uccido o lascio vivere. Meglio le risposte flessibili. E meglio vivere, in ogni caso».
Suo padre era considerato un calciatore anomalo per il suo apparire serio, consapevole, amante dell'arte e della cultura, riservato e introverso; alla fine emarginato, e anche un po' emarginatosi, da un ambiente nel quale invece avrebbe voluto rimanere.
«Il suo essere diverso non era un atteggiamento, bensì l'essere fatto in un'altra forma, con le proprie ombrosità, curiosità e voglia di capire che cosa ci fosse intorno a un campo di calcio. Credo fosse una parte di lui molto bella, e che poteva essere di esempio. Più che essere ricco e avere successo, ambiva a essere qualcuno».
E in questo ha pensato di avere fallito?
«Probabilmente sì, ma ancora una volta c'è una dimensione più grande di quella personale. Perché ancora oggi viviamo la mortificazione della serietà, nel sistema-calcio come nel sistema-Paese: lo dimostrano i laureati che se ne vanno, o il successo economico considerato metro di misurazione di ogni cosa. Agostino è stato tenuto ai margini del mondo del calcio per responsabilità di entrambi. E con quel colpo di pistola sparato in quella data ha voluto lanciare un messaggio alla nostra famiglia ma anche al mondo dal quale si è sentito rifiutato. Non ha ammesso la propria fragilità, e ha dichiarato una sconfitta».
Lei ha sempre detto di ricordare tutto di quel 30 maggio 1994. Vuole condividerne qualche frammento?
(Luca Di Bartolomei resta in silenzio per lunghi secondi) «Il 30 maggio è papà che scende dalla stanza dove dormiva con mamma e infila qualche moneta nella tasca dei miei pantaloni appesi alla ringhiera della scala; io lo vedo perché ero già sveglio, e quando entra in camera per salutarmi mi chiede se voglio andare con lui a Salerno. Io rispondo di no perché avevo una prova di latino a cui non volevo rinunciare. Poi mi vesto, preparo lo zaino, papà s'era seduto in terrazza al sole che batteva già alto, gli do un bacio. Vado a scuola. Dopo circa un'ora, con molto tatto, mi hanno avvisato di quello che era accaduto e sono tornato casa. Ago era già nella bara di zinco».
Difficile perdonare.
«Molto. E alla fine dei conti, più che perdonare lui sarebbe bastato non colpevolizzare me stesso».